Contenzioso in materia di Reati Tributari

News | pubblicato il 5-08-2019
a cura di Studio Gargani

Con al Sent. n.19191 del 17 luglio 2019 la Corte di Cassazione ha ribadito, come già in precedenti occasioni, che l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, in presenza di ulteriori oggettive circostanze, legittima il Fisco a supporre il conseguimento di ricavi di pari ammontare.

E l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi nel caso in esame autorizza l’Ufficio ad effettuare un accertamento induttivo “puro” del reddito ex art.39 DPR n.600/1973, basandosi su presunzioni cosiddette supersemplici o semplicissime, ossia prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

A differenza di quanto previsto per l’IVA, per cui l’imposta addebitata in fattura, ancorché riguardante operazioni inesistenti, va comunque versata all’Erario, nel sistema delle imposte sui redditi non vi è una corrispondente norma che preveda per le stesse operazioni un’imputazione oggettiva di un maggior reddito; ma è ragionevole la motivazione addotta dall’Ufficio che tali operazioni corrispondano ad un vantaggio economico per il contribuente, che altrimenti non porrebbe in essere tali comportamenti.

Il tutto, però, salvo la dimostrazione contraria da parte del contribuente stesso, che altrimenti resterebbe inciso da un prelievo indebito per ricavi non conseguiti.

Ed inoltre, per un costante orientamento giurisprudenziale, nel caso dell’accertamento induttivo puro per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi mediante l’utilizzo delle presunzioni supersemplici, va comunque riconosciuta al contribuente la deduzione di una percentuale forfettaria di costi, per evitare di tassare un reddito lordo e non netto, così violando il principio costituzionale della capacità contributiva sancito dall’art. 53 della Costituzione, anche se i costi non sono stati imputati preventivamente al conto economico.

Tale modus operandi dell’Ufficio, infine, va conciliato con quanto stabilito dal DL n.16/2012, che prevede la non imponibilità dei ricavi afferenti a costi per operazioni inesistenti, nei limiti dell’importo non ammesso in deduzione, prevedendo l’irrogazione di una sanzione per tali operazioni indicate in dichiarazione dei redditi (come nel caso di un contribuente che per giustificare costi inesistenti, dichiari altrettanti ricavi inesistenti).

Sempre in data 17 luglio 2019, la Corte di Cassazione ha emesso la Sent. n.31343/2019, con la quale ha stabilito che, in caso di reato per omessa dichiarazione ex art. 5 D.Lgs. n.74/2000, va provato il dolo specifico di evasione, ovvero l’effettiva volontà da parte dell’indagato di porre in essere il comportamento finalizzato ad evadere l’imposta, anche in relazione al superamento della soglia di rilevanza penale, annullando con rinvio il verdetto dei primi due gradi di giudizio che avevano condannato il contribuente alla reclusione per il reato in discussione, con una motivazione meramente apparente e basata solo su regole di esperienza, ma senza analizzare gli ulteriori elementi di fatto presenti in atti.

Per la Corte, in sostanza, la prova del dolo specifico di evasione non si rinviene per la sola omissione della dichiarazione o per la “culpa in vigilando” sull’operato del professionista incaricato di presentarla, ma è necessaria la ricorrenza di ulteriori elementi di fatto che comprovino l’effettiva volontà dell’indagato di omettere la dichiarazione, con la consapevolezza di evadere l’imposta per un ammontare superiore alle soglie di rilevanza penale.

Infine, con la Sent. n.20463/2019 depositata il 30 luglio 2019 la Cassazione stabilisce che anche la sola esposizione nella dichiarazione fiscale di un credito IVA non spettante, indipendentemente dall’utilizzo in compensazione o dalla richiesta a rimborso, è una circostanza sufficiente per applicare la sanzione ex art.5, c.4, del D.Lgs. n. 471/97.

La vicenda trae origine dall’irrogazione delle sanzioni da parte dell’Agenzia delle Entrate nei confronti di una società che aveva indicato nelle proprie dichiarazioni, per vari anni d’imposta, un credito IVA non spettante. Nei primi due gradi di giudizio, le Commissioni Tributarie avevano annullato gli avvisi dell’Ufficio dando ragione alla difesa della contribuente, motivando i verdetti sulla base del fatto che, pur avendo la stessa indicato in dichiarazione un credito IVA non spettante, non lo aveva poi effettivamente utilizzato, né chiesto a rimborso.

La Cassazione, però, cassa la sentenza di merito e rinvia la causa alla CTR in diversa composizione, ribadendo che la sanzione prevista dal D.Lgs. sopra richiamato è applicabile sempre quando la dichiarazione presentata evidenzi un’imposta inferiore a quella dovuta, o un credito detraibile o rimborsabile superiore a quello spettante, anche se la dichiarazione inesatta o infedele non abbia determinato un’evasione d’imposta o un rimborso indebito ed indipendentemente dalla volontà di porre in essere una frode.

E ciò a tutela dell’interesse dell’Erario a ricevere dichiarazioni corrette che non arrechino pregiudizio alla sua attività di controllo, oltre che alla determinazione della base imponibile, dell’imposta e del versamento della stessa, ravvisando nella dichiarazione inesatta una violazione sostanziale punibile e non meramente formale, come tale non punibile ai sensi dell’art.6, c.5-bis, D.Lgs. n.472/1997.

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