Contenzioso su residenza e domicilio fiscale in materia di reati dichiarativi

News | pubblicato il 16-11-2020
a cura di Studio Gargani

Con la Sentenza n.27606 depositata in data 06 ottobre 2020, la Corte di Cassazione si è occupata del contenzioso su residenza e domicilio fiscale per stabilire il luogo in cui si considerano commessi i reati tributari dichiarativi previsti dal D.Lgs. n.74/2000.

La regola generale prevede che è competente territorialmente il giudice del luogo in cui il reato è stato consumato (art. 8 c.p.p.) e nel caso non si possa utilizzare tale criterio, sarà competente il giudice del luogo in cui è stato accertato il reato (art. 18,c.1, D.Lgs. n.74/2000).

La Corte, nella fattispecie in esame, ha rigettato la questione sollevata dell’indagato sulla competenza territoriale; per il contribuente, infatti, si doveva determinare con il luogo in cui era la sede legale della società e non quello dove era avvenuto l’accesso dell’Ufficio alla presenza del legale rappresentante e dove si svolgeva effettivamente l’attività.

Per i reati dichiarativi la consumazione del reato si considera avvenuta nel luogo in cui è stabilito il domicilio fiscale del contribuente e sulla base di ciò, la Cassazione ha confermato l’operato dei giudici di merito che l’avevano individuato dove era presente il centro effettivo di direzione e dell’attività amministrativa.

La sede effettiva dell’impresa, ovvero il suo domicilio fiscale, può anche non coincidere con la sede legale, come ha già statuito costante giurisprudenza della stessa Corte; ed anche se l’art.58 del D.P.R. n.600/1973 per le persone giuridiche identifica il domicilio fiscale con il luogo in cui si trova la sede legale dell’impresa o in subordine la sede amministrativa, tale domicilio va inteso come quello in cui è presente il centro principale dell’attività, indicato nell’atto costitutivo e nel Registro Imprese, che non necessariamente deve coincidere con quello formale della sede legale.

In sostanza, in merito al contenzioso su residenza e domicilio fiscale, si tende a far prevalere il principio di effettività anche nell’ordinamento tributario, individuando la sede effettiva nel luogo in cui si convocano le assemblee e si prendono le decisioni amministrative e direttive, nonché dove sono presenti gli uffici.

Ciò anche per evitare che il contribuente, in caso di dubbi su possibili contenziosi penali, possa scegliere il giudice competente territorialmente spostando la sede legale o facendo spedire la dichiarazione telematica da un luogo piuttosto che da un altro.

Tale principio è, peraltro, lo stesso che si utilizza in ambito fallimentare, dove al fine di stabilire la competenza territoriale del Tribunale, è facilmente superabile la presunzione di corrispondenza tra sede legale ed effettiva, dimostrando che la prima è solo formale o fittizia, specialmente se in essa non è presente una struttura organizzativa ed operativa, riscontrando, invece, altrove il centro direttivo e amministrativo dell’impresa.

Così come, in ultimo, si ritrova anche nell’art.73 del TUIR dove, per individuare la residenza fiscale delle società, si deve far riferimento alla sede legale o alla sede dell’amministrazione (intesa come sede effettiva di svolgimento dell’attività). Sempre in tema di residenza fiscale, in riferimento però ad una persona fisica, con la Sentenza n.29905 depositata in data 21 ottobre 2020, la Cassazione ha confermato il sequestro preventivo, per il reato di dichiarazione infedele, nei confronti di un contribuente che si era trasferito per svolgere la sua professione di calciatore negli Emirati Arabi, ma che per il Fisco era da considerarsi tuttora residente fiscalmente in Italia.

Il contribuente riteneva provata la propria residenza all’estero, con la presenza sul luogo per svolgere la professione, con il trasferimento anche della sua famiglia e con il possesso di un immobile, di un’autovettura e di altri beni, a dimostrazione che i propri interessi vitali non fossero più in Italia.

Per la Corte, però, il Tribunale delle Libertà avrebbe deciso giustamente, adottando il provvedimento cautelare di sequestro, sulla base di molteplici elementi a sostegno di tale misura (dovendosi verificare in tal caso solo l’esistenza del “fumus” del reato) ed anche in funzione dell’art.2 del TUIR che, ai fini delle imposte sui redditi, stabilisce che si considerano residenti in Italia le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte all’anagrafe della popolazione residente o che hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Cod.Civ.; prevedendo poi al successivo comma una presunzione di residenza per i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi dei residenti, se trasferiti in Paesi a fiscalità privilegiata, salvo prova contraria.

Per la Cassazione, infatti per quanto riguarda il contenzioso su residenza e domicilio fiscale, il fumus del reato di infedele dichiarazione valutato dal Tribunale, si rinveniva da svariati indici che legavano ancora il calciatore all’Italia, tali da far ritenere lo stesso ancora domiciliato fiscalmente nel Paese per più di 183 giorni in ognuno degli anni contestati (tra cui il possesso di numerosi beni mobili ed immobili, di conti correnti, il sostenimento di notevoli spese in Italia ecc.).

In tale fattispecie, inoltre, non risulterebbe applicabile neanche la Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra i due Paesi, in quanto non dimostrato dal contribuente il pagamento delle imposte nell’altro Stato, ancorché basterebbe anche solo il suo potenziale assoggettamento.

Peraltro, nella stessa Convenzione, al fine di dirimere i conflitti in tema di residenza, si utilizzano come criteri, il possesso di un’abitazione permanente, il centro degli interessi vitali (luogo in cui si svolgono maggiormente le relazioni personali, familiari, sociali, occupazionali ecc.) ed il luogo di soggiorno abituale.

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